Acero campestre (Acer campestre)

L’Acero campestre è una specie molto rustica e poco esigente in termini di suoli; preferisce quelli calcarei, ma cresce bene anche in quelli argillosi. Lo si può trovare dal livello del mare fino a 1200 m. La sua crescita è molto lenta e può raggiungere i 100 anni di età.

La chioma è espansa e ovoidale, il fusto contorto e ramificato. La corteccia è giallastra da giovane e poi diventa bruno-grigiastra con piccole placche rettangolari.

E’ una specie decidua. La sua foglia ha una lamina palmata a 5 lobi. La pagina superiore è di colore verde scuro mentre quella inferiore è più chiara.  In autunno le foglie assumono una tipica colorazione giallo-oro. I fiori sono ermafroditi ma, dal punto di vista funzionale, si comportano da unisessuali. Danno origine a frutti detti “samare” che presentano un’ala lunga 2-4 cm. Le samare vengono disperse dal vento a partire dalla metà di ottobre.

L’acero campestre veniva chiamato dai contadini toscani testucchio, oppio, oppo o loppo. Era molto diffuso nelle campagne ed usato per produrre piccoli utensili e per formare le siepi. Le foglie foraggiavano gli animali e il legno dava un discreto combustibile.

Il suo utilizzo più importante era nella viticoltura in quanto fungeva spesso da tutore vivente per le viti. Da questo viene il termine “vite maritata”, una sistema di coltivazione molto diffuso in passato che ha fortemente caratterizzato il paesaggio agrario delle regioni centro-settentrionali.

Il legame tra la vite e l’albero era rapportato a un matrimonio e indicava un vincolo inscindibile e sacro.

Questo ‘matrimonio’ doveva garantire una bassa competitività tra le viti e i sostegni vivi, sia sopra che sottoterra, e un’aspettativa di vita pressocché uguale (mediamente 30-40 anni).

L’acero campestre è adatto ad essere maritato alla vite perché ha un accrescimento molto lento e sopporta molto bene la potatura e non entra in forte competizione con la vite (la quale ha bisogno di aria e luce). Gli alberi tutori venivano potati in modo da ridurne l’altezza e ai rami veniva imposta una crescita orizzontale affinché si unissero a quelli di alberi vicini; si otteneva così una spalliera su cui la vite si poteva aggrappare e su cui formava un  “festone”.

Le viti venivano piantate alla base dell’albero e fatte crescere con un sistema di potatura che favoriva lo sviluppo in altezza, fino alla chioma del tutore.

Il sistema colturale della vite maritata era tipico di un’economia di autosufficienza, dove non esisteva il vigneto specializzato. Gli aceri campestri venivano posti in filari a formare la cosiddetta “piantata”; questi costituivano spesso i confini dei coltivi ma si trovavano anche lungo argini, canali e strade di campagna. Ormai è molto raro trovare i tradizionali filari di aceri campestri nelle campagne toscane.

Il sistema di coltivazione della vite sugli alberi tutori è un retaggio etrusco. L’area geografica di questa pratica colturale coincideva, infatti, con quella della massima espansione di tale civiltà. Nel linguaggio etrusco esisteva il termine “atalson” che significa appunto vite maritata all'albero; questa veniva rappresentata diffusamente anche nella ceramica.

In epoca romana questa forma di coltivazione si consolida e si associa al reticolo regolare della centuriazione. La vite maritata era chiamata arbustum gallicum” e si ritrova anche su varie sculture.

Nella cultura cristiana il connubio vite-albero è assunto come simbolo dell’aiuto tra i fedeli o come allegoria della croce che sostiene la vita. La vite maritata si ritrova anche in antiche mappe catastali e in dipinti di paesaggio.